Omelie
Grazie don Bosco
Milano 2 febbraio 2020
Omelia festa di San Giovanni Bosco – Milano 2 febbraio 2020
Carissimi, oggi tutta la nostra comunità è in festa per San Giovanni Bosco. Noi viviamo in una bella comunità, in un oratorio vivace, pieno di attività e di iniziative, perché don Bosco ha voluto pensare a noi. Don Bosco ci ha voluto bene. Un papà.
Alla fine del 1887, in una stanzetta di Valdocco, a Torino, don Giovanni Bosco è ormai alla fine. Morirà pochi mesi dopo, il 31 gennaio 1888 (132 anni fa). Uno dei suoi ragazzi, don Michele Rua, telegrafa in Argentina a un suo vecchio amico di oratorio, anche lui diventato salesiano, don Giovanni Cagliero, ormai Vescovo e Cardinale: “vieni subito in Italia appena puoi, il nostro venerato padre sta morendo”. Il padre era don Bosco.
Per tutti i suoi ragazzi era davvero un papà. Forse qualcuno di voi, andando a Torino, ha visitato le camerette in cui morì don Bosco. Io sono rimasto colpito da un vecchio mappamondo scolorito che don Bosco aveva sulla sua scrivania. Lui guardava il mondo, pensava a tutti i giovani del mondo, voleva bene a tutti i giovani del mondo. Quando il Presidente degli Stati Uniti Obama, alcuni anni fa, il 21 aprile 2010, andò a Brasilia per festeggiare i cinquant’anni della fondazione di quella città, improvvisamente citò don Bosco. Sentire il nome di don Bosco sorprese molto. Quel prete pimontese a Torino aveva pensato a voi, disse ai ragazzi brasiliani e intravisto una linea che collegava Santiago del Cile a Pechino attraverso l’Africa. Il suo sguardo era il mondo.
Il sogno di don Bosco continua. Lui ha visto anche il nostro oratorio di Sant’Agostino, lo vede, ci accompagna.
Don Bosco ha iniziato a Torino, quando ancora era un giovane prete sceso dalle colline del Monferrato, con un desiderio nel cuore: aiutare i ragazzi e i giovani a diventare onesti cittadini e buoni cristiani. “io sono solo un povero prete, ma anche se non ho niente, se ho solo un pezzo di pane, io ne farò a metà con te”.
La sua attenzione era rivolta soprattutto ai ragazzi più poveri, quelli che. Nella Torino dell’ottocento, capitale d’Italia che si avviava diventare città industriale erano davvero tanti. Riempivano le strade, vivevano di rapine, di espedienti.
E’ soprattutto la visita al carcere minorile di Torino che lo lascia sbigottito «Vedere turbe di giovanetti sull’età da 12 a 18 anni; tutti sani, robusti, di ingegno sveglio; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentare di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire». Decide di impegnarsi per impedire ad ogni costo che i giovani possano finire così.
Così decide di aprire un oratorio. Raduna tanti ragazzi per aiutarli a crescere bene. Organizza giochi, scuole, catechismo, passeggiate. Li invita a pranzo, li fa pregare. Trova loro un lavoro. Diventa padre per tutti.
Un bambino chiede alla mamma: “mamma, ma tu credi in Dio?” “Certo” risponde la mamma. “e com’è Dio?” La mamma lo abbraccia forte forte e dice “è così”.
Questo era don Bosco per i suoi ragazzi.
Qual è il segreto dell’attrattiva così forte che don Bosco esercitava su centinaia e centinaia di ragazzi, provenienti quasi sempre dalla strada? Che cosa li attirava in lui?
C’è una frase che don Bosco ripeteva continuamente ai suoi ragazzi: “Desidero vedervi felici nel tempo e nell’ eternità”. Nella prefazione ad un libretto consegnato ai giovani dell’Oratorio ricordava che c’era gente convinta che per essere cristiani occorresse rinunciare ad essere felici.
Non è raro anche oggi incontrare dei giovani che pensano che la fede sia anzitutto e primariamente un insieme di doveri (andare a Messa, osservare i Comandamenti, rinunciare a tutto ciò che è bello perché ciò è peccato). La fede non è primariamente rinuncia a ciò che è bello, ma è la scelta di vivere in modo intelligente ciò che è bello.
Ovvio che noi che viviamo a Milano nel 2020 dobbiamo fare una memoria “sapiente”. Oggi diremmo “una lettura ermeneutica”.
Don Bosco infatti è vissuto nell’ottocento. Era una persona di grande fede e di coraggio innovativo molto forte. Ha però pensato, parlato, operato come un uomo di quel tempo. Una condizione è perciò pregiudiziale: distinguere in don Bosco quello che proviene dalla sua passione grande per Dio e per i giovani, dai modelli culturali, propri del suo tempo, attraverso i quali esprimeva questa sua passione. In secondo luogo capire lo spessore spirituale di don Bosco, la sua Santità.
Don Bosco era convinto che il cristianesimo è uno stile di vita e non qualcosa che si aggiunge ad essa. Proprio per questo diceva che non sono le regole ad educare, né l’indottrinamento, né la proposta di alcuni momenti “spirituali” che si pongano accanto all’esperienza di ogni giorno. Per educare veramente i giovani occorre vivere con loro, far loro vedere, dall’interno della vita stessa, che è bello seguire Gesù.
Assieme mangiavano, studiavano, si divertivano, si impegnavano in opere di carità. Costruivano laboratori, scuole, tipografie. Tutta una vita fioriva attorno a loro, a partire dalle esigenze concrete che essi stessi avevano. In tutto questo don Bosco non dimenticava mai che ciò che di più caro aveva da comunicare a quei ragazzi era Gesù Cristo.
Un cartello era esposto nel suo ufficio: “DA MIHII ANIMAS, COETERA TOLLE”. Il primo modo in cui lo comunicava la sua fede era la sua stessa esistenza. Erano la sua testimonianza, la sua fiducia nella provvidenza ad affascinare quei ragazzi. Pur vivendo assieme a loro, egli non si confondeva con loro. Era una guida. Attraverso le esperienze quotidiane che viveva con loro, don Bosco sfidava la loro libertà, correggeva e incoraggiava. E loro si sentivano innanzitutto amati. Capivano che in mezzo a loro c’era un padre da guardare e da seguire.
Anche oggi, cari fratelli e sorelle, ciò di cui hanno bisogno i nostri giovani non sono strategie pastorali. Essi hanno bisogno di incontrare uomini e donne afferrati totalmente da Cristo, che li aiutino a scoprirlo nel cuore della loro stessa vita, a scuola, in università, nel lavoro. Nel modo di utilizzare il tempo libero, nell’esperienza dell’amore, nei drammi che a volte devono attraversare. Padri e madri che conoscano la strada e la sappiano indicare con fermezza e misericordia assieme.
Hanno bisogno di un ambiente in cui siano realizzate queste attenzioni. Ecco perché in questi mesi l’oratorio si sta interrogando su come realizzare il sogno di don Bosco a Milano. Non abbiamo ricette. Abbiamo bisogno del contributo di tutti, perché l’oratorio è la casa di tutti. Troverete agli ingressi della basilica un questionario da compilare e porre in una apposita urna. E’ anonimo. Chi lo fa seriamente ci aiuta ad attuare in modo sapiente il sogno di don Bosco. Mons. Delpini ha chiesto a tutti gli oratori in questo anno 2020 di ripensare e riscrivere il progetto. Noi non possiamo farlo che ripensando a don Bosco. Chiediamo a lui la grazia della sua stessa libertà nel seguire il Signore e la sua passione educativa nel prenderci cura dei giovani,. Amen.
Don Virginio Ferrari
Omelia della festa di San Giovanni Bosco
Ci vorrebbe ancora don Bosco
Milano 29 gennaio 2017
Ogni Santo che il Signore suscita non è soltanto un esempio di come l’uomo possa realizzare in pienezza il progetto che Dio ha su di lui, ma è anche una parola, un messaggio che Dio rivolge a noi uomini distratti. Suscitando Madre Teresa è come se Dio avesse voluto ricordare a ciascuno di noi la sua predilezione per gli ultimi. Suscitando don Bosco Dio ci ricorda che i piccoli e i giovani sono amati da Lui e che occuparsi di loro è caro al Signore.
Gesù, ai suoi discepoli preoccupati perché i piccoli fanno perdere tempo al Maestro e sembrano distoglierlo da cose ben più importanti dice loro: “Lasciate che i bambini vengano a me, chi accoglie un bambino in nome mio accoglie me.”
L’invito del Signore è ad accogliere sempre i piccoli, gli ultimi, i semplici.
Accogliere. Una parola oggi molto usata. Non altrettanto facile da capire e da vivere. Per don Bosco accogliere significava non tanto aspettare che i ragazzi e giovani andassero a cercarlo, piuttosto andare a trovarli là dove essi vivevano, sulla strada, orfani, soli, in mezzo a situazioni di vita spesso caratterizzati dalla devianza con problematiche familiari e sociali complesse e contraddittorie.
Chissà cosa provava quel giovane prete pieno di entusiasmo quando incontrava questi giovani allo sbando, violenti e col volto triste. E’ la visita al carcere minorile di Torino che lo lascia sbigottito «Vedere turbe di giovanetti sull’età da 12 a 18 anni; sani, robusti, di ingegno sveglio; ma inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentare di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire».
E’ quello che capita anche a me oggi. Penso capiti anche a voi.
Basta fare un giro di sera intorno alla Stazione Centrale per rendersene conto. Tantissimi ragazzi e ragazze allo sbando.
Qualcuno potrebbe pensare: “Oggi però non siamo più ai tempi di don Bosco. Oggi la situazione è radicalmente diversa.”
Si può finire col pensare ingenuamente che don Bosco abbia avuto via facile, solo applausi, riconoscimenti. In realtà ha pagato di persona la sua scelta di accogliere nel senso evangelico del termine. Era sempre di corsa, non sapeva dove radunare i suoi ragazzi perché lo cacciavano da ogni parte: i suoi ragazzi disturbavano, gridavano, facevano chiasso. Non aveva soldi nemmeno per dar loro da mangiare. Qualche bravo prete lo aiutava dandogli qualche spicciolo, ma, il più delle volte non bastavano e bussava a tante porte per chiedere aiuto.
Una vita non facile. Ma che non lo ha mai scoraggiato.
Voleva a tutti i costi mostrare loro che la via del bene è più bella di quella della strada e dei luoghi dominati dalla violenza subita e dalla trasgressione. Desiderava far capire loro che è solo una vita buona, onesta che rende davvero felici. E che Dio è la strada giusta.
“ il primo impegno del demonio consiste nel farci credere che stare con il Signore significhi condurre una vita triste e malinconica, lontana da ogni divertimento. Non è così, si può essere al tempo stesso cristiani e allegri.”
Nessun giovane e ragazzo era considerato perduto, irrecuperabile, perfino chi aveva commesso colpe gravi ed era in carcere non veniva trascurato. I suoi “ragazzacci”, come li chiamavano i suoi confratelli sacerdoti, erano conquistati dal cuore prima che da servizi.
Non sempre e non con tutti ha funzionato. Anche don Bosco una sera, dopo che gli avevano rubato le coperte e se ne erano andati, cercò di consolare sua mamma Margherita sconfortata. “Giovanni, qui non ce la possiamo fare”. E don Giovanni indica alla mamma il crocifisso. Quella Santa mamma, analfabeta ma sapiente, ritornò a pulire la verdura e a preparare la cena per i ragazzi.
Ebbene, oggi che farebbe don Bosco di fronte a un mondo giovanile che è in serie difficoltà?
Cosa farebbe di fronte al nostro mondo adulto che è ancora maggiormente in difficoltà?
Emerge oggi l’incapacità del mondo adulto di misurarsi con le istanze autentiche dell’universo giovanile. Da una parte infatti ci scandalizziamo per episodi tragici che hanno protagonisti dei ragazzi, vedi l’efferato omicidio di Ferrara, e dall’altra si assiste alla rinuncia di tanti adulti ad educare. Situazione ben espressa da un testo sulla devianza giovanile di paolo Crepet non privo di spunti interessanti:
“Questa società non ama più i suoi ragazzi. […]Distruggiamo i loro parchi, gli lasciamo qualche sala giochi, gli vendiamo iphone sempre più tecnologici perché si possano ancor più isolare, gli regaliamo macchine velocissime per poi piangere sui loro incidenti del sabato sera. Gli vendiamo birre e pilloline eccitanti e poi firmiamo appelli per chiudere le discoteche un paio d’ore prima. […]Perché ci meravigliamo, allora, quando vediamo questi ragazzi già così vecchi, bruciati perfino nella fantasia?”
- CREPET, Cuori violenti. Viaggio nella criminalità giovanile, Feltrinelli, Milano, 2008, 158.
La proposta di don Bosco non è certo buonista. E’ molto impegnativa, egli chiede all’educatore di volare alto con i giovani. Amarli e stare molto tempo con loro. Chiede all’educatore di abbassarsi al livello dei giovani, di amare quello che loro amano, per poi aiutarli ad accettare anche quello che spontaneamente non amano: la fatica, l’impegno, la serietà. A volte capaci di dire anche dei no, quando è necessario. Guai se diciamo sempre e solo dei sì. Guai se pensiamo che amare i giovani significhi parlare come parlano loro, vestirci come vestono loro, senza però essere per loro guide sicure.
Chi ha a che fare con ragazzi o con i giovani sente tutta la fatica dell’educare. Penso alle vostre famiglie. Penso a tante famiglie della Parrocchia che si sentono impotenti, che sono ferite, rassegnate, scoraggiate. Non esistono ricette prefabbricate né procedure standard, seguendo le quali si ottengono risultati certi.
Oggi ricordiamo la santa Famiglia di Nazareth. Penso che le nostre famiglie debbano vivere con questa filosofia: continuare a seminare, con coraggio e speranza, perché ogni ragazzo tiri fuori il meglio di se. Anche nel peggiore c’è sempre un punto accessibile al bene.
Ci viene in mente quella parabola raccontata da Gesù del seminatore, che a larghe mani butta il seme dovunque: sulla strada, in mezzo ai sassi, tra i rovi, e anche sul terreno buono. Non è preoccupato di ottenere subito risultati. E’ pieno di speranza.
Ogni ragazzo, come ogni uomo, è unico ed irripetibile, una scheggia di infinito, un mistero.
Ha un modo libero e unico di rispondere a tutte le sollecitazioni educative. Per questo l’educazione è un’arte. E per questo il suo risultato non è né immediato né scontato.
E’ sempre stato difficile …ma oggi lo è ancora di più.
A voi ragazzi oggi don Bosco direbbe: puntate in alto. Siate pieni di entusiasmo e di voglia di vivere. Alcuni anni fa ad un grande calciatore arrivò la lettera di un ragazzo: “Vorrei fare il calciatore e diventare famoso come te. Dimmi però subito se è una cosa lunga e faticosa. Altrimenti cambio strada ”.
Ieri sera voi ragazzi avete realizzato un bellissimo spettacolo. Mastro Boschetto ce l’ha messa tutta col suo estro a trasformare dei blocchi di marmo, dei marmocchi in capolavori.
E’ il compito a cui è chiamato ciascuno di voi.
Diventare un capolavoro. Dipende anche da voi. “La vita di un ragazzo – diceva Charles Péguy- dipende da pochi sì e da pochi no detti nella giovinezza”.
Don Bosco ci aiuti a trovarlo questo punto e a lavorare insieme per costruire una società migliore.
Don Virginio Ferrari
Omelia dell’inizio dell’anno oratoriano
L’inizio dell’anno educativo e pastorale è certamente uno dei momenti più belli e importanti per una comunità.
Anche quest’ anno, come comunità, insieme, ragazzi ed adulti, vogliamo partire bene per crescere nell’amicizia con il Signore, come ci ha ricordato il Card. Scola: “crescere nella fede per proporre con gioia a tutti che Cristo Risorto non cessa di venire incontro ad ogni uomo”.
Certo ogni anno che passa questa sfida ci appare sempre più difficile.
La frequenza alle nostre Messe, alla catechesi e ai gruppi dell’oratorio non è più quella di quarant’anni fa. E’ radicalmente cambiato lo scenario. Stiamo entrando in una società che i sociologi qualificano come post-moderna.
E, come in tutte le epoche di crisi sociale, il problema cruciale è aiutare le famiglie, i ragazzi e i giovani a trovare punti di riferimento.
Anche la nostra Parrocchia e il nostro Oratorio avvertono questa fatica: Ci disperiamo? Viviamo di nostalgia? Ci lamentiamo che una volta le cose andavano meglio? Che l’oratorio anni fa era molto più frequentato di adesso?
E’ tutto vero.
Ma è inutile rimpiangere il passato. E’ più utile rimboccarsi le maniche e accettare di confrontarci con i tempi nuovi.
Cosa farebbe oggi don Bosco? Cosa ci direbbe oggi?
E’ sempre stato difficile educare. Chi ha a che fare con ragazzi lo sa molto bene. Oggi sembra esserlo ancora di più che nel passato.
Cos’è che è cambiato in questi anni che rende così difficile educare e dialogare con i ragazzi e i giovani?
Oggi molti definiscono la nostra società caratterizzata dall’accelerazione della storia. In altre parole significa che, ogni cinque dieci anni, avvengono cambiamenti che prima avvenivano in un secolo.
A livello educativo significa che uno in vent’anni cambia quattro secoli. Diventa allora più difficile comunicare, capirsi, intendersi. A volte si ha come l’impressione di parlare linguaggi diversi, di non riuscire più a capirsi. ( lei ragiona così perché è un adulto, noi ragazzi non ragioniamo così)
Oggi poi sono molte le agenzie educative che operano in contrasto con la famiglia: la televisione, la stampa, internet.
La famiglia si trova sempre più isolata e sempre più in difficoltà a combattere contro queste agenzie che propongono progetti di vita in genere più attraenti, molto meno faticosi e più redditizi di quelli che propone la famiglia … e da qui la conflittualità e il rifiuto dei genitori e della famiglia.
Perché studiare? Perché lavorare e far fatica quando si vorrebbe diventare famosi senza sforzo.
Oggi, più che nel passato, è necessario lavorare in rete
Oggi più che mai i genitori sentono il loro compito come carico di grandi responsabilità. Ecco la necessità di allacciare e costruire ponti, patti educativi: con l’oratorio, la parrocchia, la scuola e gli insegnanti. Senza un patto educativo preciso e programmato molti genitori si sentono oggi spiazzati.
Oggi più che mai bisogna ripartire dalla famiglia.
Angelo Giuseppe Roncalli, che diventerà papa con il nome di Giovanni XXIII, in occasione del suo compleanno scrisse ai genitori:
“ Cari papà e mamma, oggi il mio pensiero corre spontaneamente a voi: compio gli anni e desidero dirvi un grande grazie. Voi con la vostra vita mi avete insegnato le cose fondamentali dell’esistenza. Tutto quello che ho imparato nei miei anni di studio è solo un povero commento di quello che voi mi avete insegnato in quei bellissimi anni a Sotto il Monte. Per questo, grazie”.
Quali elementi problematici nel rapporto educativo con cui anche noi ci dobbiamo confrontare:
- Uno degli aspetti più critici nell’educazione, oggi, mi sembra quello legato all’esercizio dell’autorità, quello che Recalcati chiama il complesso di Telemaco.
In questi ultimi decenni si è scritto di “orfani di genitori viventi”, per sottolineare l’emergere vistoso di un problema educativo: l’abdicazione dell’adulto ai ruoli che gli competono. L’autorità, pensata come esperienza sgradevole, sembrerebbe contrastare con l’affetto per il figlio. A questo punto avviene un rovesciamento di posizioni, al comportamento “genitoriale” si sostituisce un comportamento “amicale”:
- comportarsi come gli adolescenti: stesso linguaggio, stessi vestiti..
- per una sorta di giovanilismo non si ha più il coraggio di contraddire nemmeno davanti ad errori (sono dei ragazzi, anche noi lo siamo stati…….).
Questo comportamento però alla fine provoca gravi danni: la perdita di precisi punti di riferimento per valutare la realtà e decidere il proprio comportamento.
La perdita dei genitori, o della paternità e della maternità, se da un lato elimina i conflitti, dall’altro lascia un vuoto e una solitudine intollerabili. Il vero problema non consiste nell’eliminare l’autorità-autorevolezza, quanto nel modo di gestirla.
Nel suo significato etimologico infatti la parola autorità dice capacità di far crescere. Perché si realizzi questa crescita è sempre necessaria una asimmetria nel rapporto educativo.
2 – il secondo aspetto problematico consiste nel pensare che se un ragazzo ha tutto è anche felice. Una bella bicicletta, scarpe firmate, un IPhone ultimo modello. L’esperienza ci insegna che questo non è vero. Non sono le cose che rendono felici. La felicità o la si ha nel cuore o niente.
Cosa vogliamo proporci in questo anno pastorale.
Anzitutto l’oratorio vuole aiutare le famiglie ad educare. Non facendovi delle prediche, ma offrendovi opportunità di dialogo e di incontro.
L’Oratorio di Don Bosco in questo senso non è primariamente un ricreatorio. Si qualifica per un progetto. Don Bosco vuol aiutare i ragazzi a crescere.
La prima preoccupazione di don Bosco è per per ‘salvezza’ della gioventù. Entrando nel suo ufficio i giovani rimanevano colpiti da una scritta in latino che campeggiava dietro la sua scrivania e che diceva “ da mihi animas, coetera tolle”.
Noi vogliamo che Gesù sia al centro del vostro cuore
“ il primo impegno del demonio consiste nel farci credere che stare con il Signore significhi condurre una vita triste e malinconica, lontana da ogni divertimento. Non è così, si può essere al tempo stesso cristiani e allegri.”
Con quale stile vogliamo starvi vicino
* Accogliendovi. L’oratorio è casa che accoglie.
* Aiutando piccoli e grandi a capire cosa è importante nella vita.
* Invitando i più grandi a impegnarsi per aiutare i più piccoli.
* Creando un clima di festa e di gioia.
Don Virginio Ferrari